
Tempo fa ho ascoltato una conferenza molto interessante sulla figura del “guru” nell’insegnamento dello yoga.
Guru inteso non come figura egocentrica e carismatica che accentra tutta l’attenzione su di sé, ma nel significato tradizionale di “maestro”: ruvido, severo e autoritario, che dice verità sgradevoli, che a volte fa male all’allievo per fargli del bene, che presuppone una fiducia cieca nelle sue indicazioni.
Contrapposta a questa figura “antipatica”, c’è quella dell’insegnante “amicone”, che distribuisce accondiscendenza, che quando si tratta di dire la verità si chiede prima se sia gradevole e, se non lo è, la omette o la manipola per renderla più accettabile dai suoi studenti, magari per non perdere un cliente in più.
Nel panorama dello yoga attuale vedo molti insegnanti così: tutto è soft e delicato, per non urtare sensibilità e articolazioni fragili, tutto appoggia su rassicuranti cuscini e copertine, per non sentire la durezza del pavimento e della Vita. Si cerca di andare incontro a qualsiasi richiesta, di accomodare qualsiasi esigenza, ricattati dallo spauracchio del prossimo insegnante che potrebbe proporre una soluzione ancora più allettante e “accaparrarsi” lo studente.
Un insegnante “cattivo” è un cattivo insegnante?
È un tema enorme, molto importante secondo me, dove fondamentale è la quota di responsabilità che si assume l’insegnante stesso:
Dov’è la linea di confine tra la figura del guru severo e quella dell’insegnante amicone?
Dove è più corretto posizionarsi?
Un insegnante “cattivo” è un cattivo insegnante?
Cosa vuol dire creare uno spazio di pratica “sicuro”?
Mi sono spesso posta questa domanda, ogni volta che da me ci si aspetta una centratura e una calma interiore da essere sovra-umano, oppure ogni volta che sarebbe facile vendere la “pillola della felicità” ai miei studenti, e invece cerco di portare consapevolezza sugli aspetti “scomodi” della pratica yoga, sulla fatica del cambiamento, sulla sofferenza implicita nel vedere le cose per come sono e non per come vorremmo che fossero, sul senso di responsabilità personale che implica anche semplicemente mantenere con costanza l’impegno preso di partecipare alla classe settimanale.
Da insegnante, mi rendo conto che è un equilibrio sempre in bilico tra voglia di aiutare e bollette da pagare, tra aspettative irrealistiche sullo yoga e il desiderio sincero di offrire soluzioni e disponibilità. Ma fin dove ha senso spingersi? E soprattutto, fin dove è utile? (sia agli studenti sia all’insegnante stesso)
L’equilibrio anche nella ricerca dell’equilibrio
Molte persone (e l’insegnante yoga non è immune da queste debolezze dell’animo umano) desiderano stare bene, sia fisicamente che psicologicamente, ma si rifiutano di guardare in faccia le proprie rigidità e temono quella sensazione di “fastidio”, perché parla dei loro limiti, della loro frustrazione, del loro sentirsi inadeguati di fronte a qualche richiesta.
Sarebbe facile, di fronte a queste resistenze, dire che lo yoga risolverà tutto se solo replichiamo per benino quell’esercizio o eseguiamo quel rituale. Ma se sono un insegnante responsabile, devo aiutare i miei studenti a notare dove sono le reali rigidità. So che spesso questo non piace.
Oltre i chakra, i mantra, gli “OM” e le tecniche di pranayama che fanno tanto “risveglio spirituale”, c’è e deve esserci, il rispetto per l’impegno preso verso sé stessi e verso l’insegnante che lavora. Ci devono essere confini, da una parte e dall’altra, che delimitano e segnano dove fermarsi nel rispetto degli altri.
Io, per esempio, non ritengo un mio diritto sostituirmi alla persona che ho di fronte indicando una strada piuttosto che un’altra. Se quella persona si autoboicotta nel suo percorso, anche quello è parte del suo percorso, ed è giusto che proceda sulla sua strada, anche se per me a volte significa perdere un partecipante alle classi.
Allo stesso tempo, siamo nel 2025 e i tempi sono cambiati: il movimento #MeToo ha mostrato gli abusi nascosti dietro l’aura sacra e intoccabile del guru, c’è una sensibilità diversa delle singole persone rispetto al proprio Corpo, il linguaggio deve diventare inclusivo, il consenso deve essere un tema centrale anche nella pratica yoga, ogni persona ha diritto a scegliere autonomamente i confini della propria identità e dignità.
Come conciliare questi aspetti che sembrano contrapposti?
Forse la chiave di svolta potrebbe essere in una parola che racchiude un pò tutto in modo equilibrato: EQUANIMITÀ. Essere equanimi significa osservare con una sorta di imparzialità di giudizio, che non vuol dire però non prendere posizione, ma al contrario “offrire continuamente una casa alla verità del momento presente” (Cit. Rebecca Bradshaw)
Se sono un insegnante di yoga equanime non vendo verità assolute né pillole della felicità: il mio compito finisce nel momento in cui io ho invitato ad esplorare le varie possibilità di movimento del Corpo e della Mente, ma non sta a me dire quali siano quelle giuste da seguire: questa scelta è responsabilità dello studente, è la sua Vita, è la sua pratica. Vi invito a diffidare da chi vi vuole sollevare da questa responsabilità scegliendo al posto vostro, anche se all’inizio sembra che questo renda la Vita piú facile.
Cosa ne pensate? Preferite insegnanti piú accondiscendenti o che vi mettono in discussione?
L'immagine mostra una statua di Fudō Myō-ō, divinità buddhista dall'espressione feroce e il cui nome significa "L'irremovibile Re della Saggezza"
È probabile che “la misura di una persona” in parte risieda nelle domande che è in grado di porre, più che nelle risposte che sa dare. Quello che vedo io nella nostra classe è che non si insegna una disciplina, ma si educa ad una disciplina, e la differenza è enorme. insegnare è trasferire informazioni, educare (educere) è estrarre informazioni. Far nascere consapevolezza del proprio corpo (educare ad una propriocezione consapevole) e del proprio corpo nello spazio e nel tempo. Questa non è cosa da poco e non so in quanti altri corsi questo avvenga. Chi se ne importa delle posizioni standard, quelle lasciamole ai manuali di Yoga, Qui costruiamo consapevolezze.
Ti ringrazio Luca per questo commento: mi dà fiducia di essere sulla buona strada e di lasciarvi qualcosa di utile. Le posizioni yoga sono frutto di una tradizione antica, ma senza consapevolezze sono solo forme vuote.
ii9 personalmente preferisco chi mi aiuta a fare cambiamenti (nel fisico e nell’animo) ma ho sempre pensato che la discussione è il confronto sia il modo giusto per percorrere un cammino.. Mettere e mettersi in discussione è questo il giusto cammino e, se l’insegnante di yoga mette in discussione il mio operato è un bene. D’altronde gli amici, quelli veri, non sono coloro che ti danno sempre ragione, ma coloro che ti stimolano alla critica, costruttiva, e alla consapevolezza)
Grazie Patrizia per questa riflessione. Mettersi in discussione richiede molto coraggio per uscire dalla comfort zone e provare a guardare le stesse cose ma da una prospettiva diversa. La mia speranza è quella di riuscire ad accogliere quanti piú punti di vista è possibile anche nella pratica dello yoga, senza mai dare nulla per scontato. Per questo motivo ogni feedback, portato con rispetto ed educazione, è sempre benvenuto.
Io penso, che non ci sia il giudizio “mi piace perché è severa “ oppure non mi piace perché non mi dice mai niente” penso che sia giusto trovare sé stessi proprio usando tutti gli strumenti che la vita ci mette sulla strada, oggi può essere un amicizia, domani un corso di yoga, ognuno fa il proprio percorso , e lo fa per raggiungere il suo benessere, poi se nel percorso si riesce anche a condividere con altri le proprie esperienze bene, altrimenti pazienza . L’insegnante di yoga è uno strumento e come tale non va giudicato ma apprezzato per le sue competenze, poi ripeto sta a noi accogliere i frutti..
Condivido quello che dici riguardo allo “strumento” yoga, Adriana: ognuno ha la libertà di capire se è utile al proprio benessere oppure no, e scegliere di conseguenza. Per quanto riguarda il ruolo dell’insegnante, invece, ritengo che dovrebbe esserci oltre alla competenza anche una dose di responsabilità verso lo studente, a prescindere dal fatto che quest’ultimo sia pronto oppure no a cogliere i frutti della pratica. Si cerca di incontrare le persone dove si trovano, senza forzare, senza manipolare. Non è sempre semplice perché siamo umani, ma etica professionale per me vuol dire questo.