C’è un aspetto, secondo me, a cui purtroppo ancora non si presta la dovuta attenzione nelle classi yoga, ed è quello del consenso al tocco.
In una classe di yoga, soprattutto se in presenza, si lavora necessariamente a stretto contatto con il Corpo fisico di altre persone.
Da studente, ho visto spesso insegnanti intervenire anche in modo troppo energico con il tocco per “aggiustare” e “correggere” la postura (termini che metto tra virgolette, perché già da soli meriterebbero delle considerazioni a parte – preferisco usare termini come “adattare” e “supportare“).
Da insegnante, ho cercato sempre di limitare al massimo questo tipo di interazioni, un pò perché ho molta fiducia nell’intelligenza del Corpo e voglio incoraggiare l’autonomia della pratica, un pò perché la questione secondo me è delicata e non può essere liquidata in modo sbrigativo.
Una questione non scontata
Non si tratta solo di un astratto quesito etico, ma di un aspetto che può avere implicazioni molto concrete, soprattutto quando si lavora con un approccio somatico e trauma-informed come il mio.
Anche se con le migliori intenzioni e limitato al massimo, questo contatto fisico tra insegnante e allievə presuppone comunque un oltrepassare i limiti fisici di un’altra persona, anche solo per avvicinarsi ed entrare nello spazio personale dell’altrə, e troppo spesso questo gesto viene fatto in automatico e senza pensarci.
Già in passato il movimento #MeToo ha mostrato che possono esserci abusi nascosti anche dietro l’aura sacra e intoccabile del guru di turno.
Le sempre piú numerose richieste di attenzioni a questioni come violenza di genere, educazione all’affettività, linguaggi e contesti piú inclusivi dimostrano che serve un’educazione al consenso in tutti gli ambiti dell’interazione umana.
Personalmente, penso che non ci dovrebbe essere mai un’assunzione implicita di consenso quando si lavora con la fisicità delle persone: il/la destinatariə di una pratica yoga non è mai solo un corpo, ma un’intera persona, e una persona è sempre la somma di un Corpo + un vissuto. Non conosciamo il vissuto di quella persona e quindi non possiamo dare per scontato proprio nulla.
È anche vero che non siamo statə educatə al consenso, e sembra strano che qualcuno ce lo chieda: questo scambio lo diamo per scontato, sia come insegnanti che come studenti, ma in realtà presupporrebbe un consenso esplicito a ricevere quel contatto ravvicinato, o almeno averne parlato in modo chiaro.
Toccare ed essere toccati
Nell’esperienza somatica esiste una verità molto semplice: ciò che tocca viene anche “toccato”, cioè riceve, a sua volta, un contatto. Questo ricevere un contatto presuppone un atto di accettazione, che dovrebbe essere consapevole, ma a volte purtroppo è solo passivo.
Pensiamo ad esempio alla differenza tra stendersi su un letto morbido o sul pavimento: nel primo caso accettiamo senza problemi il contatto, nel secondo caso no, e infatti alcune persone non riescono a rimanere a lungo immobili stese sul tappetino, perché a qualche livello il loro Corpo non riesce ad adattarsi completamente questo contatto.
Questa duplice dimensione del “tocco” è quella che lo rende uno strumento estremamente potente, ma “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”, diceva qualcuno.
Quando il Corpo dice “NO” ce lo dice con forza, ce lo urla con malessere fisico, dolore, ma a volte anche psicologico ed emotivo. Ce lo dice ogni volta che qualcosa ci stona e non sappiamo bene cosa. Dovremmo sempre ascoltare queste sensazioni.
Purtroppo, come dicevo, non siamo stati educati al consenso e quindi, per alcune persone, può risultare molto difficile mettere un confine ben preciso:
– Le donne sono state per secoli educate ad essere sempre accoglienti e gentili verso l’altro, per cui può risultare molto difficile verbalizzare un “no” senza per questo sentirsi scortesi o in colpa.
– Alcune persone sono molto compiacenti a qualsiasi richiesta, soprattutto se la percepiscono come provenire da una figura autoritaria, ma in questi casi non si tratta di consenso vero e proprio, ma piuttosto di una risposta traumatica appresa. In questi casi un “si” esterno può essere vissuto nella realtà interiore come una forzatura, una violenza verso sé stessi, e generare quindi rabbia, vergogna, frustrazione.
– A volte può esserci un senso di pudore o timidezza, altre volte dolore e tensione fisica, altre ancora uno stato di allerta psicologico… Tutte condizioni nelle quali un contatto fisico può risultare sgradevole o inappropriato.
– A volte, banalmente, un ulteriore stimolo esterno può distrarci dal seguire le nostre sensazioni, generando sovraccarico sensoriale e confusione nella percezione, invece che facilitarla.
– C’è anche la questione delicata della relazione insegnante-allievə, che si basa su una fiducia riposta a volte in modo incondizionato e su un consenso implicito, conferito solo in virtù del ruolo che l’insegnante ricopre in quel contesto. Quando si entra in uno spazio yogico, si tende spesso a percepirlo come un luogo sicuro, protetto ed etico. Questo tende a far abbassare la guardia.
Anche l’insegnante yoga ha diritto ad esprimere il proprio consenso
Questo aspetto del consenso nelle classi yoga non riguarda solo gli/le allievə.
Anche l’insegnante yoga dovrebbe prestare attenzione alle sensazioni che riceve nell’interazione con l’altrə, perché le stesse considerazioni fatte per gli studenti valgono per qualsiasi persona: quando si tocca, si viene anche toccati.
Anche l’insegnante dovrebbe quindi porsi la domanda di quali sono i limiti delle richieste di interazione che è in grado di sostenere.
L’educazione al consenso è e deve essere, quindi, parte integrante di una pratica yoga che rispetti davvero OGNI individuo.
Una delle ambizioni che ho, nello svolgere il mio lavoro, è quella di restituire questo potere alle persone, perché possano fare in autonomia scelte più consapevoli (non solo sul tappetino, ma anche e soprattutto nella vita di tutti i giorni)
Da quest’anno, ho introdotto nelle mie classi un piccolo gettone con due facce colorate: verde per esprimere il consenso al tocco e a un’interazione ravvicinata, rossa per negare questo consenso. Ogni studente può fare la propria scelta a inizio lezione e cambiare idea anche durante lo svolgimento della classe, senza obbligo di darmi alcuna spiegazione.
Alcuni studenti hanno apprezzato, altri sorriso, altri hanno rifiutato il gettone continuando a preferire un consenso tacito basato sul rapporto di fiducia esistente fra di noi. Per me va tutto bene finché la domanda è stata posta.
È ora di parlare di consenso in tutti gli ambiti che riguardano la relazione tra persone, anche negli spazi di movimento.
È ora di creare spazi sicuri per tutti i Corpi.
Perché per poter dire SI in modo consapevole, bisogna prima imparare a dire NO in modo altrettanto consapevole.
Rosa Russo dice
Mi compiaccio per le motivazioni così chiaramente ed ampiamente descritte. Vorrei stare a Torino per poter usufruire delle numerose opportunità riservate alle persone che hanno la fortuna di seguirti